C’è una tendenza in atto da qualche tempo, a voler stupire a tutti i costi. Vorrei qui proporre una riflessione sulla relazione tra tre concetti: stupore (noi pubblicitari parleremmo di impatto, mentre i clienti apostrofano questa espressione con “una campagna creativa”, come se quest’ultime non fossero mai esistite) effimero ed autoreferenziale, poiché un nesso tra le tre parole c’è ed è forte, ed è opportuno parlarne ancorché in tempi di cambiamento.
Stupire a tutti i costi è un compito della pubblicità? In barba alle più elementari regole e a quanto Ogilvy ci ha lasciato in eredità (già ma chi era costui che diceva: “non scrivere mai un annuncio che non faresti leggere alla tua famiglia. Non mentiresti a tua moglie e allora non farlo con la mia) mi pare che i pubblicitari (anche questo appare come termine desueto, agli addetti ai lavori piace comunicatori) abbiano dimenticato qual è il ruolo che hanno e quale è la responsabilità che si assumono nei confronti del committente e del consumatore.
Ora so che questo ragionamento rischia di sembrare anti-creativo o potrebbe sembrare una sterilizzazione degli slanci che persino le nuove tecnologie hanno generato in tutto coloro che fanno un mestiere che ha a che fare con il comunicare, tuttavia esiste una questione di fondo che da sempre i comunicatori in forma intima o collettiva (poco per la verità in collettivo) si pongono ed ha a che fare con il funziona o non funziona.
Recentemente alcune campagne sono state oggetto di censura da parte di alcune amministrazioni comunali. Mi riferisco a due recenti casi: quello dell’Atac di Roma (fig. 1)che censura una campagna ben fatta (quanno ce vo ce vo!) promossa da Current TV la TV di Al Gore; dell’azienda di abbigliamento Relish di Milano (fig. 2) che ha addirittura scatenato un incidente diplomatico con il Brasile (come se non bastasse quello più serio di Battisti) cui aggiungo quella distributore di arredo bagno barese (fig. 3), non censurata.
Alcune di queste campagne funzionano, sicuramente funzionano più per il rumore che generano piuttosto che per gli insegnamenti di Ogilvy e di tanti altri bravi colleghi italiani che ci indicano da sempre che la comunicazione che vende è quella che costruisce la marca. Altre invece puzzano di lavori fatti per compiacere chi li ha pensati e “fregare il cliente”, purtroppo non nel suo interesse.
Allora di chi è la colpa quando una campagna è brutta? Non ho dubbi è sempre di chi l’ha pensata e non di chi l’ha approvata. Che campagne sono quelle che non costruiscono la marca, che non hanno una radice valoriale forte, che compiacciono il cliente? Che marche sono quelle che propongono certi concetti/valori? Allora non stupisce che alcune pubbliche amministrazioni esercitino una censura, che benché anacronistica, appare come una funzione rieducativa di mittente e destinatario della comunicazione.
mercoledì 25 febbraio 2009
Quando la pubblicità fa cagare è colpa dei pubblicitari e non dei committenti
Pubblicato da Ettore Chiurazzi alle 10:44 PM 1 commenti
traccia: comunicazione di marca
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